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"Sopporta, cuore mio."

A volte vorrei non avere un corpo: è così pesante, pesa come un macigno nella mia realtà. Noi siamo quello che esperiamo e quello che ricordiamo. La nostra persona fisica è un universo a sé, che vive una realtà unica che nessun altro corpo vive e mai vivrà allo stesso identico modo. Questo ci rende soli in mezzo alla moltitudine dei corpi.


I nostri universi però si incrociano costantemente con quelli degli altri, a volte profondamente, a volte distrattamente, e questi incontri - tutti - ci plasmano e diventano parte di noi. Così riteniamo di avere un sentire comune, perché siamo simili, ci vediamo simili, tocchiamo corpi come i nostri. Ma ciò che è attorno a noi, ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo con mano esiste solo ad opera dell'esperienza sensibile del nostro unico corpo. Non siamo dunque "calati" in una realtà preesistente, ma tutto è perché noi lo esperiamo.

Potremmo forse descrivere qualcosa che non abbiamo conosciuto? Dunque questa è la primaria sofferenza dell'essere sensibili: la coscienza del corpo. Corpo che duole fuori e allo stesso modo ci duole dentro. Piccola ascia che scava nel legno vivo, fatto per essere intagliato. Il presente ci passa davanti alla velocità della luce lasciandoci inermi, e il passato è lontano solo perché non più fisicamente tangibile.


Siamo fragili gusci, ognuno con un mondo di cose dentro che non sappiamo neanche spiegare a noi stessi, figuriamoci agli altri, a loro volta inespugnabili gusci. Corazza che si scontra con corazza provoca nient'altro che rumoroso tumulto, violenta scossa di coscienza che in un batter di ciglio è già diventata irraggiungibile passato.


Possiamo farci qualcosa? Forse ricordare? Nostalgia tanto cara all'uomo, un bel modo per rivivere il dolore del corpo e mantenerlo sempre teso allo struggimento. Anche la gioia diventa dolore nel momento del ricordo, poiché si è fatta passato; è diventata intangibile.

E così ci abituiamo un po' a tutto, ad essere pazienti, ad essere patenti: "sopporta cuore mio, che già grande affanno patisti", ci dice Ulisse nel XX canto dell'Odissea.


Ecco la responsabilità di avere un corpo, l'impossibilità di scinderci da esso, il misterioso tutt'uno con lo spirito e la mente. Continueremo ad essere inquieti, donne e uomini razionali, corpi coscienti che dormono cullati nelle illusioni, ognuno nelle proprie particolari sfumature di realtà. Galleggiamo nell'acqua stagnante della mente, mentre tutto il resto scorre inesorabile.


Improvvisamente vedo tutta la meraviglia attorno al mio corpo e sorrido percorsa da un brivido: sono sorprendentemente viva qui e ora! Teniamoci compagnia, forse possiamo assottigliare questo guscio, quanto basta per mostrarci a chi avrà occhi per guardare e orecchie per ascoltare...



 

Nell'immagine di copertina: Ophelia, dipinto di John Everett Millais (1851-52).

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